THOMAS MANN E LA SUA LEZIONE ALL’UNIVERSITÀ DI PRINCETON DEL 1939 SU «LA MONTAGNA INCANTATA»: 2/2 (recensione di Vittorio Panicara)

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Nel discorso tenuto a Princeton Mann affronta quello che ritiene il tema principale, o quasi, della «Montagna incantata»: il mistero del tempo e della sua duplice natura: da una parte il piano storico definito dal tempo cronologico, simboleggiato dalla pianura (Mann lo spiega così: l’interiore immagine di un’epoca, quella dell’anteguerra europeo); dall’altra il tempo puro della “montagna incantata”, considerato in sé e per sé. Mann vede in esso l’ermetico incantamento del suo giovane eroe verso un mondo fuori del tempo, e contemporaneamente l’annullamento del tempo mediante i mezzi dell’arte. La vicenda di Castorp a Davos ha dunque il valore paradigmatico dell’opposizione tra arte e politica, tra il tempo cronologico e la creazione letteraria, che lo annulla. Sarà opportuno a questo punto ricorrere a qualche riferimento testuale a scopo esemplificativo.


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Nella Digressione sul senso del tempo (cap. IV) l’io narrante propone un paradosso: la vita in sanatorio è noiosa e monotona, l’esperienza psichica di questa ininterrotta uniformità ci fa credere che questa sia una dilatazione del tempo, ma non è così. Gli anni pieni di avvenimenti passano più adagio di quelli vuoti; essendo ricchi di eventi, sono l’opposto del vuoto psicologico degli anni in cui non accade nulla, come in sanatorio. Una vita vissuta in quella che chiamiamo “noia” a rigore è un morboso accorciamento del tempo in seguito a monotonia; lunghi periodi di tempo vengono così a restringersi: se un giorno è come tutti, tutti sono come uno solo. Il senso del tempo di Castorp, dunque, con il passare dei giorni, tende a sbiadirsi, a ridursi a zero. In questo modo a spegnersi è lo stesso sentimento della vita. Nel capitolo successivo (la parte è intitolata Danza macabra) il discorso torna alla dimensione del tempo, alla somma dei tanti momenti, tutti insignificanti (rimanere sulle sdraio, misurare la febbre) che scandiscono la giornata del malato: è la somma di tante nullità, che si allungano fino a diventare una piccola eternità. L’inizio del cap. VI, invece, riporta le domande che Castorp rivolge a sé stesso sulla natura del tempo, avanzando una sua ipotesi. Se il tempo produce il mutamento (Mutamenti è il titolo della parte) e se si misura sul movimento, che di per sé, essendo ciclico, torna sempre al punto di partenza, allora il tempo s’identifica con il suo contrario, con la quiete. Castorp, nelle sue deduzioni logiche, si chiede come possa definire gli spazi e i tempi finiti, limitati, “salvandoli” dall’eterno e dall’infinito. L’io narrante onnisciente incoraggia il protagonista ad avviare la sua ricerca filosofica sul rapporto fra il tempo e il cambiamento. Allo stesso tempo incoraggia in questa direzione anche il lettore, promettendogli implicitamente di risolvere il problema.
Castorp, secondo la definizione che ne dà Mann, è un sempliciotto, un amburghese figlio di papà e mediocre ingegnere, ma manifesta un po’ alla volta una sana curiosità intellettuale in merito a questioni filosofiche, scientifiche e morali. Sa apprendere e far tesoro delle sue esperienze in sanatorio e, come è possibile dimostrare, corrisponde al lettore ideale, “iscritto” nel testo: un uomo colto, pieno di curiosità, incline a cercare la verità al di fuori degli schemi prefissati dal conformismo sociale borghese. Fin da principio, come si è visto, affronta quella che è forse la tematica dominante del romanzo: la dissoluzione del tempo in una vicenda singolare e in un luogo, il sanatorio, che allontana i suoi ospiti dall’esperienza della vita, di una vita vera, e quindi dal tempo stesso. Ma un mondo senza tempo è in stretta analogia con l’opera d’arte, la cui durata non dovrebbe avere confini (è questa la risposta alle domande di Castoro espresse in «Mutamenti»). La tematica della «Montagna incantata» tende a dilatarsi: il tempo, con le sue trasformazioni, diventa la chiave di lettura dell’intera opera.
È grazie al tempo, infatti, che ha luogo la maturazione del protagonista, a cui si è già fatto cenno. Grazie ad essa egli diviene capace di avventure morali spirituali e sensuali, che in pianura non avrebbe mai potuto neppure sognare. In lui, afferma Mann a Princeton, storia e racconto si fondono andando oltre il realismo, e i personaggi che lo attorniano assumono tutti un valore simbolico: Joachim, Clavdia Chauchat, Peeperkorn, Settembrini, Naphta e via via tutti gli altri. Le loro vicende oltrepassano di gran lunga il piano della satira dell’istituzione sanatoriale (a cui Mann non ha comunque rinunciato) e assurgono, grazie alla rarefazione del tempo e contemporaneamente ai progressi cognitivi di Castorp, a un’inaspettata dimensione spirituale. Mann spiega così quello che chiama incremento, cioè la trasformazione della short story in due grossi tomi. Un breve esame di alcune di queste vicende e di alcuni personaggi può mostrare la loro “magia” e il loro ruolo educativo, che favorisce l’apprendimento del protagonista.
La storia d’amore, se così la si può definire, tra Hans e M.me Chauchat attraversa tutto il primo tomo, che si conclude con la loro unica notte d’amore, quando Castorp vince timidezza e timori grazie all’impiego del francese (Mann a Princeton spiega che la scelta di una lingua straniera può vincere le inibizioni molto meglio della lingua materna). La vicenda è caratterizzata sul piano narrativo da una fitta simbologia sessuale degli oggetti, a cominciare dalla matita data in prestito (KURZKE: 107). Ma la vicenda acquista significato più tardi, quando la donna fa ritorno in sanatorio con il suo amante Peeperkorn. Castorp impara da lui e dalla donna il rispetto dei sentimenti e della loro intensità vitale. L’olandese, non potendo “possedere” integralmente la sua donna (ha intuito ciò che è avvenuto in passato tra Hans e Clavdia), sceglierà il suicidio, coerentemente con l’impeto dei suoi istinti e quindi con il destino di quasi tutti i malati di tubercolosi del sanatorio, cioè con la morte. Da notare la forma degli affascinanti occhi chirghisi di Clavdia, che ricordano a Hans lo sguardo “asiatico” di un suo compagno di scuola, il bellissimo Pribislav Hippe; lo apprende in un sogno. Il punto è che Hans ha avuto in prestito anche da lui una matita, un simbolo erotico a questo punto evidente. Hans si era innamorato di lui a scuola, così come era accaduto allo stesso Mann, come confessa nei suoi diari (KURZKE: 107). Il pensiero va alla «Morte a Venezia» e all’ossessione di von Aschenbach per il quattordicenne polacco Tadzio. Ma se questo amore è platonico e autodistruttivo, nella «Montagna incantata» Hans raggiunge almeno parzialmente i suoi scopi, non direttamente con il suo compagno di scuola, con il quale si è fermato al livello della fantasia, ma indirettamente con una donna reale, esperta del mondo, suo alter ego. Riguardo all’amore «La montagna incantata» è più autobiografica della «Morte a Venezia».
Di Lodovico Settembrini, un colto umanista che ricorda Carducci, e del suo antagonista (ma a lui complementare, qualcosa di simile a un’antitesi hegeliana) Leo Naphta, gesuita contrario al progresso e ai principi democratici, si è già detto. A Princeton Mann afferma di considerare Settembrini una figura umoristica e simpatica, talvolta anche il portavoce dell’autore, ma non certo l’autore stesso. La precisazione è importante, se pensiamo alle «Considerazioni» del 1918, solo in parte rinnegate. Ora, le prese di posizione di Settembrini non si limitano alla difesa dei valori morali e della libertà, ma toccano già nel quinto capitolo il tema del contatto con la morte nel sanatorio e dei suoi effetti sulle persone, dall’ipersensibilità al cinismo: la morte è la sacra condizione della vita, la sua necessaria premessa, e per questo va rispettata, come avveniva fra gli antichi. Più avanti Castorp, al termine di una complessa e feconda dinamica di estraniamento, confusione e riconoscimento, darà ragione a Settembrini e torto a Naphta (utile, però, per una presa di coscienza della negatività nell’uomo e nel mondo), riconoscendo nella morte la logica negazione dialettica di quella vita che inutilmente la medicina cerca di individuare e definire. Nel discorso di Princeton Mann propone e difende una mentalità umana che non ignora razionalmente né disdegna, è vero, l’idea della morte né i lati oscuri e misteriosi della vita, ma li include senza lasciarsene dominare nello spirito. La “salvezza” pare esprimersi simbolicamente nel famoso capitolo della tempesta di neve, quando Castorp è solo con se stesso, nonostante l’ampio deserto invernale, e si scopre in un “nebbioso nulla” avulso dalla dimensione spaziale e da quella temporale. La sua coscienza è libera, può riflettere sull’aspra polemica tra Settembrini e Naphta a cui ha assistito, provando su di sé il peso delle loro contraddizioni. Girando in tondo torna all’inaccessibile capanna al culmine della sua meditazione (gli sono apparsi anche Clavdia e Hippie). A questo punto si addormenta in piena bufera e sogna un felice paesaggio mediterraneo, pervaso da un’atmosfera di concordia e armonia, un gruppo di uomini e donne che ha l’impressione di aver già conosciuto. È una visione spirituale che esprime la religiosità della vita in comunità e in lieta amicizia. È anche vero, però, che a queste immagini paradisiache fa seguito una scena terribile, che ha dato la stura a interpretazioni demoniache (e discutibili) dell’intera opera, una messa nera in un tempio, in cui viene dilaniato un bambino piccolo secondo un rituale che ricorda il mito delle baccanti di Euripide. La celebrazione del banchetto di sangue si svolge, dunque, dopo una visione di gaia convivenza: alla vita, infatti, non può disgiungersi la morte. Ciò significa ancora una volta che l’interiorizzazione del pensiero della morte non può essere soppressa, ma che non deve anteporsi a quella della vita, in una dialettica che esprime l’essenza dell’esistenza. Castorp può “vedere” in un momento la soluzione dei suoi dilemmi esistenziali, la morte con la vita, la salute con la malattia. La corazza intellettuale di Castorp intanto si sgretola e nella perdita della propria singolarità (si pensi al successivo decesso di Joachim, suo cugino, e al modo in cui Hans vive questo momento) ritrova per un momento l’umanità. Certo, viene in mente la nicciana «Nascita della tragedia», con il dionisiaco che si oppone all’apollineo; si tratta di un’ipotesi interpretativa un po’ semplicistica, che riconduce troppo facilmente Mann a Nietzsche.  Ciò che è fuori di dubbio è che Castorp si sveglia e giura a sé stesso di non concedere più alla morte alcun potere sui suoi pensieri. Egli ora sa rispettare la morte e il male, apparsi a lui nel sogno, in quanto presenza inevitabile nel momento in cui si deve vivere la vita per quello che è. Soprattutto se si è in un sanatorio.
Il nesso malattia-morte, inoltre, funge da cardine per il racconto delle attività mediche e si sublima nella già citata morte di Joachim, narrata con toni di solenne elegia. Castorp, come sottolinea Mann a Princeton, dopo tanta malattia e tanta morte, rivolgendosi a Clavdia Chauchat, affronta il nodo centrale delle loro esperienze in sanatorio, quando le spiega che esiste una via particolare che conduce alla vita: è brutta, porta attraverso alla morte ed è la strada geniale. Debellando il dominio dell’idea della morte, malattia e morte divengono un passaggio d’eccezione al sapere e, a livello di coscienza, al senso misterioso e appena adombrato della vita. Questo, conclude Mann, fa della «Montagna incantata» un romanzo iniziatico, “di formazione” (Bildungsroman), sublimazione e spiritualizzazione del romanzo di avventure.
La definizione Mann la rinviene dai contributi della critica, che apprezza in quanto necessari e utili. Si riferisce in particolar modo a The Quester Hero. Myth as Universal Symbol in the Works of Thomas Mann, un saggio dell’Universtà di Harvard (Mann non nomina l’autore, ma si tratta di Howard Nemerov; il testo è una dissertazione ed è anch’esso del 1939). È il tema della ricerca, già presente nel Faust di Goethe e ancora prima nella tradizione del Santo Graal, in cui l’Eroe è colui che cerca e interroga, che percorre il cielo e l’inferno. Infatti, Parzival è all’inizio un Great Fool (un po’ come il Wilhelm Meister goethiano), ma al termine del suo percorso, dopo prove tremende e misteriose, raggiunge il suo sacro traguardo. Nella «Montagna incantata» Hans Castorp, il viaggiatore in cerca di cultura, persegue la pericolosa ricerca del mistero della vita. Il suo avventuroso progresso attraversa volontariamente il mondo della malattia e della morte, avvicinandosi ai più riposti segreti. La meta è, come visto, quel livello di coscienza che il protagonista raggiunge soprattutto nel già citato capitolo intitolato «Neve»: in una stupefacente dimensione onirica gli è apparso il suo Graal (ma affiancato dal sabba infernale, a cui si contrappone), ovvero l’idea dell’uomo, la concezione di un’umanità futura. Castorp può così intravedere il mistero dell’uomo, e forse la visione di un futuro possibile caratterizzato dall’amore e dalla concordia (Mann non fa nessun riferimento alla scena demoniaca), consapevole che ogni umanità è fondata sul rispetto del mistero umano.
 Con l’adesione alla tesi della «Montagna incantata» quale Bildungsroman termina il discorso di Thomas Mann a Princeton, ma l’interpretazione di Nemerov non è stata accettata da tutti gli studiosi e merita un breve approfondimento. I parallelismi tra il Perceval di Wolfram von Eschenbach e «La montagna incantata» di Thomas Mann sono innegabili, ma Mann non “difende” altrettanto bene il suo eroe quanto Eschenbach. I progressi di Castorp, infatti, riguardano di meno la conoscenza e l’identità rispetto a Parzival, tanto è vero che del sogno avuto durante la tempesta di neve nella sua memoria rimane non molto; inoltre, Castorp sembra ristagnare e non cogliere mai con chiarezza i suoi obiettivi fino alla fine del romanzo, quando sarà “assorbito” dalla guerra (FRIEDRICH). Della stessa opinione è il traduttore, Ervino Pocar, nella sua introduzione: a rigore, nonostante l’evoluzione e gli esperimenti non si può dire che [Castorp] raggiunga una forma conclusiva; si potrebbe anche ipotizzare che la sua educazione interiore possa rispecchiare al tempo stesso qualcosa di simile a una parodia (POCAR: 12). Probabilmente gli intenti parodistici di Mann non erano mai stati abbandonati durante la lunga stesura del romanzo: il suo abituale ricorso all’ironia permea e “alleggerisce” l’intera narrazione della «Montagna incantata» e gli consente di non “prendere sul serio” la terribilità degli eventi che si svolgono in sanatorio. E ciò vale a maggior ragione anche nel caso della maturazione del protagonista. Mann instaura un distacco quasi irridente dalla materia: da una parte i progressi spirituali e intellettuali di Castorp sono una forma particolare di iniziazione alla vita in società, alla filosofia, alla scienza e alla politica; dall’altra l’autore rinnova e aggiorna il genere del Bildungsroman rendendolo più congruente con gli anni della Germania di Weimar e, in generale, con la decadenza della civiltà europea appena uscita dal “tritacarne” della Grande Guerra.
Inoltre, il raffinamento spirituale di Castorp pare non corrispondere a un aumento della sua vitalità (la già vista forza vitale nicciana, con l’elemento dionisiaco che dunque prevarrebbe sull’apollineo); il suo raziocinio soccombe di fronte all’emergere prepotente della sensualità (KURZKE: 104). E l’ironia, come già detto, relativizza tutto, compresa l’educazione di Castorp, che in effetti è incompleta e in questo non ci ricorda affatto Parzival e il Santo Graal. Anzi, il protagonista parrebbe rivelarsi un Anti-Eroe tipicamente novecentesco: la sua “magia”, la sua strada geniale, è quella della “montagna”, ma il suo ritorno alla “pianura” – dunque alla società e alla Storia – segna il suo ineluttabile disfacimento in guerra. La discussione sul tipo di romanzo, se “sociale” o “di formazione” (HOHN), a questo punto perde vigore, o perfino ragion d’essere. «La montagna incantata» non dimentica affatto la società e il tempo della Storia, ma si colloca dalla parte del “tempo puro”, che sa ammaliare il protagonista e proporre al lettore l’invito a non assolutizzare la morte e a “superarla” mediante l’arte, la musica (si ricordi il rapporto con Wagner) e l’opera letteraria. Il protagonista raggiunge alla fine del romanzo un’iniziazione solo parziale, tanto è vero che l’autore, mediante il narratore onnisciente, sempre presente nel narrato, commenta i suoi comportamenti e in genere le vicende del romanzo con osservazioni spesso distaccate e ironiche, talvolta sorridenti. È all’istanza autoriale, infine, che rimanda la magia, la magia della montagna, cioè dell’arte, che è atemporale, sicché il libro non solo offre un nuovo esempio di romanzo di formazione, ma suggerisce in filigrana la necessità di un discorso letterario e valoriale nuovo, per offrire a noi lettori frammenti di umanità che rispettino il mistero della vita umana. Allo stesso tempo rammentando al lettore europeo i rischi di una crisi storica che di lì a poco sarebbe sfociata nuovamente in tragedia.

BREVE SITOGRAFIA

BREVE BIBLIOGRAFIA

FRIEDRICH Kathrin, Parzival auf dem Zauberberg? Spuren Wolframs von Eschenbach in Thomas Manns Roman, Amsterdamer Beiträge zur älteren Germanistik, ebook, Brill 2019

HOHN Klaus Ludwig, Thomas Mann: “Der Zauberberg” – ein Bildungsroman oder Gesellschaftsroman? , GRIN Verlag 2012

KURZKE Hermann, Thomas Mann. Ein Porträt für deine Leser, Verlag, C.H.Beck 2009

POCAR Ervino, Introduzione e appendice, in: Thomas Mann, La montagna incantata, traduzione di E. Pocar, Corbaccio 2022

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