Sofisti greci: fra virtù individuale e relativismo culturale

Briciola di filosofia #23

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Trovate le puntate precedenti, sulla pagina dedicata a questa rubrica: Briciole di filosofia


Oggi, dare a qualcuno del sofista non significa fargli proprio un complimento, visto che con questo termine si bolla un ragionatore cavilloso, pretestuoso e complessivamente disonesto. Ma invero le cose non andavano troppo diversamente nemmeno al tempo della loro apparizione, benché, come vedremo, con sfumature e per ragioni più complesse.

Nel corso del V sec. a.C. la Grecia assiste prima al trionfo sulla Persia e poi allo scontro fratricida tra Atene e Sparta, da cui la vita sociale esce profondamente modificata. Nel giro di pochi decenni il costume tradizionale si corrompe, lo stato perde autorità, e dappertutto si agitano spinte particolaristiche ansiose di partecipare alla vita politica e di affiancare al potere economico anche il prestigio culturale.

È in questo nuovo clima che si assiste al pullulare di esperti che scrivono di tutto, dalla musica alla gastronomia, dalla ginnastica all’agricoltura, dalla grammatica alla critica letteraria, dalla matematica alla medicina, determinando una rivalutazione di discipline da cui la filosofia si era fin là tenuta lontana. E in questo frenetico flusso, che insinua fibrillazioni di dubbio, si afferma anche una nuova categoria di intellettuali che in quella crisi si inseriscono con la proposta di un sapere più aderente alle nuove esigenze: i sofisti.

Ma chi erano dunque costoro? Benché il termine rinvii chiaramente a sophia (sapienza), non è più nel nobile senso pitagorico che va inteso. Si trattava invece di professori che offrivano il loro insegnamento a pagamento a chi se lo poteva permettere, per questo suscitando scandalo. Se la richiesta di remunerazione per il lavoro svolto a noi sembra sacrosanta, non lo era affatto in un mondo per cui la cultura era un bene aristocratico riservato a pochi. I sofisti, invece, costretti a spostarsi da una città all’altra, sia per le frequenti accuse di immoralità che per bisogno di sbarcare il lunario (ma proprio per il loro peregrinare forniti di una mentalità cosmopolitica e scevra da pregiudizi di classe) non facevano gli schizzinosi nell’offrire un servizio a chiunque lo richiedesse dietro compenso, senza badare alla purezza dei contenuti.

Per la mentalità greca classica la formazione (paidea) era un fatto quasi genetico, e non divergeva dalla morale aristocratica interiorizzata attraverso la religione, il mito e la poesia. I sofisti, invece, col presupposto che la virtù (arethé) è insegnabile, vennero a sconvolgere quel costume, mettendo a punto efficaci strumenti, e spostando l’indagine dalle cose fisiche a quelle umane. Così, se fino ad allora la filosofia si era concentrata sull’arché, sull’essere o sul divenire delle cose, con loro per la prima volta lo studio si spostò dall’oggetto conosciuto al soggetto conoscente. Ma questa attenzione all’uomo non va intesa come spassionata inchiesta conoscitiva, no. In un contesto politico vivace, lo studio privilegiava quelle facoltà che consentivano all’individuo di eccellere e di farsi valere nelle evenienze della vita sociale.  

È chiaro quindi che i sofisti non puntavano a stabilire valori universali: ma, assecondando le tendenze egoistiche e scardinando ogni pretesa di assoluto, facevano largo spazio all’opinione… Il fatto è che non era solo cambiato il concetto di virtù (arethè) ma anche quello più radicale di verità (aletheia). In un mondo in evoluzione, la virtù non puntava più all’aristocratico traguardo della kalokagathia, ma si acquistava mediante abilità di cui ognuno poteva impossessarsi. Lo stesso valeva per la verità, che, smarrito il suo carattere assoluto, assecondava nella frammentazione ideologica la deriva individualistica. La stessa convinzione che ogni civiltà possiede valori differenti da un’altra, e che tutte le opinioni si equivalgono, induceva a un’istruzione non finalizzata alla pura ma sterile contemplazione, quanto piuttosto a scopi utilitaristici. E pertanto la filosofia, invece di tracciare il labile crinale tra vero e verosimile, prese a inseguire più misurabili parametri di utilità e danno; e accantonata ogni pretesa di certezza si adeguò al contesto, alla singola persona, e persino ai suoi stati d’animo provvisori, smettendo la veste austera della ricerca per assecondare di volta in volta obiettivi modesti ma concreti.

Ecco allora perché i sofisti si preoccupavano di offrire un sapere pratico, fatto di accorgimenti specifici con cui, più che scrutare la natura dell’anima, se ne individua la forza per dominarne le debolezze. E siccome la scena canonica di affermazione era data dai tribunali e dalle assemblee, dove maggiormente avveniva il confronto politico, ecco che la disciplina più utile diventava la retorica, ossia l’arte di persuadere mediante un uso sapiente e astuto del linguaggio. Per il quale i sofisti insegnavano adeguate tecniche, elargendo consigli, accorgimenti e artifici; e per dimostrare la validità o l’infondatezza di qualsiasi argomentazione estremizzavano la dialettica fino a sostenere rispetto alla medesima questione sia la tesi che l’antitesi (eristica).

Nonostante questo loro intento eminentemente funzionale, e malgrado l’opportunismo contro cui più tardi si scaglieranno Socrate e Platone, il loro avvento non fu però un fatto deleterio, e produsse una vera e propria rivoluzione antropologica. E non tanto perché i sofisti misero per la prima volta l’accento sull’uomo, da cui la filosofia non si allontanerà più; ma soprattutto perché alcuni di loro, in particolare Protagora e Gorgia (di cui mi occuperò a parte), raggiunsero vette di profondità raramente eguagliate, aprendo le incrinature ancora attualissime del relativismo gnoseologico e morale, o della sempre risorgente tentazione nichilistica…


 

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