Socrate: la ricerca della verità

Briciola di filosofia #29

3–4 minuti

Trovate le puntate precedenti, sulla pagina dedicata a questa rubrica: Briciole di filosofia


Punto di partenza per la ricerca è la conoscenza di se stessi, della nostra natura più profonda, delle qualità, difetti, inclinazioni e finalità. Come dire che la verità si trova nel fondo di ognuno di noi, e che per coglierla occorre affondare l’occhio nella propria psiche. Non per portarne a galla la dimensione ontologica, oscillante tra il timore omerico per la separazione dal corpo e l’aspirazione orfico-pitagorica alla liberazione, no: ma per coglierne la specifica virtù (areté). Intesa così, l’indagine è una discesa “agli inferi” individuale, poiché nessuno può ricevere la verità dall’esterno. È questo il significato più autentico del daimon che Socrate diceva di albergare, e la cui voce lo richiamava alla responsabilità morale oltre il conformismo formale della norma. Ed è su questo studio di sé che l’uomo che sapeva di non sapere fondava la legittimità del suo operato.

Soltanto dopo questo periplo interiore, Socrate poteva indicare non un sapere versato dall’alto, ma una traccia da seguire. Il suo contributo alla conoscenza, pertanto, non consisteva in una mercificazione dei contenuti, ma in un’indicazione metodologica che pungolasse ognuno a percorrere autonomamente la propria strada. Per questo colui che aveva indagato a lungo se stesso poteva rivolgersi agli altri non con l’arroganza del dotto ma con l’umile ironia di domande apparentemente banali, ma veri strumenti della sua missione civile.

In cosa consisteva dunque questa missione, e in che modo Socrate l’assolveva? Assetato di verità e conoscenza, ma al tempo stesso provvisto di un robusto senso civico, innestando sulla pratica un principio filosofico, Socrate puntava a un obiettivo non solo speculativo, ma anche socialmente utile. Per questo, richiamandosi all’attività della madre ostetrica, poteva affermare che come lei aiutava i corpi a partorire, lui lo faceva con le anime. Ma a partorire cosa? Sul presupposto che si può mettere al mondo solo un feto già esistente, il filosofo può contribuire alla nascita della verità solo in chi ne è già “incinto”, e che abbisogna a sua volta di una “levatrice”. In questo consisteva la famosa arte della maieutica che Socrate pretendeva di esercitare. Solo che, mentre alla madre occorrevano forcipi e tenaglie, per favorire i parti di meningi erano le parole che il terapeuta scambiava col paziente sotto forma di inchieste, dubbi e provocazioni. Rinnovando così l’antico motto delfico, ecco allora che il sapere di non sapere diveniva la condizione stessa dell’indagine, nel senso che, fingendo di voler rimediare alla propria insipienza, Socrate smascherava quella altrui, rendendo i concittadini consapevoli delle loro carenze e dei loro pregiudizi.

La differenza del suo insegnamento da quello di sofisti non consisteva perciò nel fatto che non chiedeva soldi. Dalla premessa della propria ignoranza Socrate si sentiva autorizzato a porre anche domande apparentemente sconcertanti o ingenue, ma di fatto ironicamente calibrate e puntuali. Non atteggiandosi a padrone di un sapere da vendere, non teneva alati discorsi retorici per abbacinare l’ascoltatore; ma ponendosi nella veste dell’insipiente desideroso di apprendere, sfoderava con falsa modestia una lama dialettica che portava l’interlocutore a riconoscere le proprie contraddizioni e incertezze, come premessa a una superiore consapevolezza. Ed è con questa tecnica che il dialogo socratico, ben lungi dalle chiacchiere da taverna, conduceva a cogliere valori e verità universali…

Ciò perché Socrate non dimenticava mai che la pars destruens della sua azione, più che un cinico diletto per demolire l’avversario e confondere i saputelli, trovava complementarità in quella construens di fargli fare un salto cognitivo. Ma se l’uso spregiudicato dell’ironia e della dialettica nasceva dal moto di empatia con cui assolveva il suo compito civile e morale, logorando i pregiudizi e le tradizionali certezze, doveva fatalmente finire per disturbare i benpensanti avidi solo di consensi. E fu proprio per la corrosività del suo spirito che Socrate, tanto seguìto dai giovani, finì nel mirino di coloro che vedevano nel suo rigore e nella sua intransigenza un pericoloso elemento di corruzione dei costumi e di infrazione alla legge.  E ne causarono la disgrazia.  


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