Amare le parole: Vera Gheno e i «Grammamanti»

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Siamo talmente abituati a usare ogni giorno migliaia di parole per qualsivoglia azione compiamo che ben difficilmente ci capita di soffermarci sul loro valore, sulla loro flessibilità, di più: sul loro ruolo nel modificare pensieri, modi di vedere, influenze su ciascuno di noi. A porre un punto fermo su tutto ciò, con un saggio di notevole efficacia, è Vera Gheno, sociolinguista, per vent’anni attiva nell’Accademia della Crusca, poliglotta e figura di primo piano del mondo della linguistica italiana che non esita a definirsi “grammamante” in contrapposizione ai “grammarnazi” proliferanti nel Bel Paese.

Se ogni istante della nostra esistenza è diverso dall’altro, se le fasi evolutiva della vita, le diverse età che passiamo ci portano scoperte costanti, mutamenti di immaginazione e di concezione della realtà, ulteriori (o più ristretti) sguardi sulla società anche la lingua non è da meno: essa infatti è flessibile, si adegua all’epoca che abitiamo, offre plurime occasioni per evolvere (o involvere), è lievito di ogni democrazia, è base della polis. Tutto dipende dall’uso che ne facciamo.

Nel volume, nato in realtà anni fa sotto forma di un avvincente monologo teatrale di successo, si passa in rassegna con dovizia di particolari il fenomeno dello sviluppo delle parole nell’uomo, che ci differenzia da ogni altro essere vivente, partendo dalle origini degli idiomi e con un focus sull’importanza di ogni atto linguistico che, per tutti, segna tanto la nascita (pensiamo al nome che viene assegnato a ciascuno e che ci “marchia” a fondo, così come il sesso biologico e l’identità di genere) quanto la morte (solo con la constatazione del decesso si è ufficialmente defunti e si innescano tutte le procedure burocratico-legali connesse). La nostra identità coincide sempre più spesso con ciò che diciamo, con il nostro stato di parlanti, con la lingua che utilizziamo e ciò ci rende chiari agli occhi degli altri fornendo una descrizione di quello che siamo. Essere“grammamanti” significa accostarsi a un idioma, meglio a più idiomi come suggerisce Gheno, come di fronte a un nostro caro, a una persona che amiamo: con delicatezza e sentimento, sapendo che le parole sono pietre e che ogni lingua dev’essere un momento di scambio nel rispetto nostro e altrui. La lingua, in buona sostanza, non dev’essere considerata ferma e immutabile, ad essa (e segnatamente all’italiano, da più parti sbandierato come la più bella e ricca del mondo) è necessario guardare con quella necessaria flessibilità che serve per adeguarsi ai tempi che mutano: pensiamo solo alla matematica o alle infinite sfumature dei colori a cui si può ricollegare il discorso sulle parole. Il richiamo della sociolinguista, forte di uno studio e di una “militanza” in questo ambito, è al ruolo dell’identità di genere che parti politiche minimizzano quando non contestano, al maschile sovraesteso che non include, ma separa, alla diversità come elemento di ricchezza contro l’omologazione e, di fatto, a quel sostrato linguistico che richiede una evoluzione per comprendere e non per isolare. Serve, dunque, un linguaggio ampio più che inclusivo, serve che l’idioletto, vale a dire l’insieme delle caratteristiche linguistiche di una persona, possa corrispondere al meglio alla capacità di nominare il mondo così come di porre in essere atti di identità individuali e collettivi. 

Gheno non si limita a enunciare, da studiosa della sociolinguistica, i fenomeni apportando personali valutazioni anche sull’attualità più stringente, ma fornisce altresì la propria esperienza di poliglotta, di viaggiatrice, (con alcuni passaggi divertenti e illuminanti), di studiosa attenta e aperta alle relazioni sociali che passano sempre attraverso l’uso di parole ponderate poiché tramite esse comprendiamo il mondo e, in fondo, noi stessi. La lingua diventa dunque fondamentale per interagire: ma cosa succede quando la cosiddetta “normalità” allontana, svilisce, misconosce diversamente abili, persone non binarie, neuroatipici, solo per fare qualche nome? Ha fatto scalpore diventando peraltro in pochi mesi un fenomeno editoriale di successo il libro di un neoparlamentare europeo che fa di questi temi il centro della propria narrazione: di qua i normali, di là i diversi. Pur senza nominarlo Gheno ha ben chiaro che essere “grammamanti” equivale aporsi dal lato di chi subisce un’ingiustizia con le parole, quando la lingua viene usata come clava anziché quale forma di comunicazione ampia che tutto e tutti accoglie. “È importante – si legge in un passo del libro – che la società ripensi l’idea stessa di normalità e di standard e inizi, magari, a considerare che esistono altri punti di vista, altre verità, altre letture della realtà, e non una sola, unica e monolitica”. No ai “grammarnazi”, dunque, sì ai “grammamanti”, a coloro che prefigurano nuovi futuri, nuovi orizzonti sempre più aggiornati, in cui nessuno si debba sentire né escluso né semplicemente tollerato o integrato. Se il nostro cervello ha saputo evolversi da quel lontano ominide di centinaia di migliaia di anni fa è d’uopo non invertire la tendenza bensì cogliere ogni occasione che la vita ci pone davanti per migliorarci, apprendere nuove parole, imparare nuovi idiomi, differenziare la nostra produzione linguistica, in ultima analisi, amare la lingua proprio come si amano i propri cari.

Un decalogo utile, questo, che si può rintracciare nell’ultimo capitolo del libro, una piccola lezione in pilloledensa di suggerimenti per respingere quella che Calvino definiva “l’antilingua” e ricordarci, tra l’altro, che salus per verba, la salute passa anche attraverso le parole. 

Vera Gheno
GRAMMAMANTI. Immaginare futuri con le parole
Saggistica
Einaudi
160 pagine, 15 euro

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4 commenti

  1. L’autrice non è affatto una “figura di primo piano del mondo della linguistica italiana”. Ma scherziamo? Semmai è la più mediatica (il che non è per forza positivo). Il libro è un insieme di ipotesi e idee di altri (Falk, De Mauro…) assemblate e accostate in modo pop

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    • Mah, sa, come disse qualcuno siamo nani sulle spalle di giganti, lo dico da linguista che però non ha ancora letto il libro. Insommma, dire che Gheno è la linguista più mediatica ci fa forse dimenticare un certo Chomsky, ma tant’è. Accostare idee del passato di maestri come De Mauro a me non mi pare un brutto punto di partenza per cominciare una ricerca linguistica e per riflettere su un uso sapiente del linguaggio.

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