Briciola di filosofia #36
Nella briciola precedente avevamo assistito all’autodifesa che Socrate pronunciò in tribunale, e alle ragioni per cui fu condannato. Ciò che accadde dopo il processo ci è invece narrato in altri due dialoghi di Platone, il Critone e il Fedone, strettamente collegati alla vicenda, seppur composti in tempi diversi. Da essi apprendiamo che la condanna a morte non poteva essere eseguita prima del ritorno della nave sacra che ogni anno veniva inviata a Delo per ringraziare Apollo di aver aiutato Teseo contro il Minotauro. E siccome per tutta la durata del viaggio, circa un mese, la città doveva conservarsi pura, sospendendo le esecuzioni e le guerre, tanto dovette attendere Socrate in prigione, proseguendo l’abituale consuetudine di discutere con discepoli e amici in un regime di relativa autonomia.

Scaduto però il tempo della sospensione, è infine giunto anche il suo ultimo giorno di vita, essendo la nave tornata in porto, come viene a riferirgli proprio il Critone che dà nome al dialogo. Non senza aggiungere la supplica che Socrate si lasci infine convincere a fuggire. Ci ha già provato più volte, il buon Critone, certo dell’iniquità della sentenza, assicurandogli protezione per sé e la famiglia. Ma quel cocciuto di Socrate non ne vuole sapere; e invece di darsi una mossa, inizia a discettare persino in extremis sul rispetto dovuto alle leggi, anche quando sono ingiuste, visionando la scena di vedersele venire incontro, se fuggisse, per accusarlo di infrangere le regole che fondano il sistema sociale e civile di cui si è nutrito. E ancora meno si scompone per il timore che gli amici possano essere esposti alla derisione popolare per non averlo aiutato a evadere per ignavia o paura. Anzi, ne approfitta per ribadire il suo elitismo intellettuale, per cui è l’opinione del saggio a contare, e non certo quella del popolo volubile e infuenzabile, e pertanto incapace di cogliere la verità. Col che Platone, fin dalle prime opere, inaugura la riflessione sul rapporto tra legge e giustizia che l’assillerà per tutta la vita, e costituirà uno dei temi cruciali della sua produzione.
La scena del mitico trapasso ci viene però dal Fedone, un dialogo della maturità che, oltre a porre altre complesse questioni, la impreziosisce di curiosi dettagli. Anche qui siamo nel giorno ferale, ora che la nave sacra è tornata, e Socrate si dispone a prendere congedo dal figlio e dalla moglie Santippe, che al giungere degli amici scoppia in lacrime e strida. Allergico ai lai, la fa allora allontanare, per discutere serenamente con Fedone, Critone e gli altri della cerchia. A cui comunica di aver iniziato, dietro invito di Apollo, a comporre poesie e a mettere in musica i propri insegnamenti come proprio canto del cigno. Quindi, per consolarli, ribadisce che la vita del filosofo è una continua pratica di morte, perché solo distaccandosi dal corpo, che è impedimento alla sapienza, l’anima può dirsi davvero libera.

A provarlo, si diffonde allora in una lunga disquisizione sulla sua immortalità, sul destino che l’attende, sull’anamnesi e la metempsicosi (che ci riserviamo di trattare in altre briciole). Raccomanda poi di non preoccuparsi per la sua sorte, poiché la liberazione dal carcere avverrà presto per mano del messo giunto con la cicuta, di cui loda peraltro bontà e umanità, mentre lo osserva impassibile sciogliere in una tazza il veleno che beve d’un fiato. Ormai è fatta. Non c’è più speranza. Tutti scoppiano a piangere, beccandosi il suo estremo rimprovero di aver allontanato le donne proprio per evitare lamenti. Quindi si sdraia sul letto tirandosi addosso un lenzuolo. L’uomo del veleno comincia allora a tastargli i piedi e le gambe per appurare il progressivo effetto del veleno, sorpreso dell’estremo guizzo di Socrate, che, come un cadavere risorto, rammenta a Critone di offrire ad Asclepio il gallo promesso. Quindi si ricopre senza aggiungere altro. Finché, dopo un leggero sussulto, l’uomo capisce e lo mostra, mentre Critone gli chiude gli occhi e le labbra…Così Platone, benché non presente perché impedito dalla malattia, descrive la fine del maestro, non senza suscitare qualche perplessità, visto che la cicuta sembra agire entro 15 minuti sulle sinapsi, con sintomi di tachicardia, tremori, sudorazione, vomito, delirio e diarrea. Nulla di quanto riportato di quella serafica dipartita. Non è questo che conta, va da sé, né Platone avrebbe voluto inquinarne la nobile figura con turpi convulsioni. Ciò che invece voleva ribadire era che chi ha esercitato la filosofia per tutta la vita nulla ha da temere di male; che gli atti richiedono coerenza con le prediche astratte; e che la dignità è una conquista ardua, ma indispensabile per meritare il rispetto di sé e degli altri.

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Niente come sembra e saper guardare oltre le apparenze un dilemma come “essere o non essere
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certamente. Di questo parleremmo ancora con Platone
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