Povera gente: il capolavoro giovanile di Dostoevskij

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Nel recente incontro del Caffè letterario di Zurigo si è parlato di uno dei capolavori giovanili di Fëdor Dostoevskij, Le notti bianche. Per l’occasione avevo preso una serie di appunti di cui, per lasciare spazio alla discussione, non sono riuscito a esporre che una minima parte; e pertanto, rielaborandoli, mi ero proposto di estendere le mie considerazioni a un pubblico più vasto, riportandole qui su Giornate di lettura.

     Senonché, avendo riletto per l’occasione i lavori composti da Dostoevskij nel medesimo giro d’anni, ossia tra il 1846 e il 1849, insomma prima della deportazione che per un decennio ne avrebbe interrotto l’attività, mi è parso utile soffermarmi un momento anche su quegli scritti che, come una fucina da cui estrarre il materiale incandescente dei grandi romanzi, contengono in nuce toni e tematiche del Dostoevskij maturo. Per questo, prima di concentrarmi su Le notti bianche, farò una sommaria carrellata delle opere di esordio, dove, pur tra qualche slittamento patetico, già si avverte l’acutezza psicologica del grande russo, e ad esse dedicherò qualche numero.

     Il romanzo che dalla sera alla mattina rese celebre il suo autore, e lo impose tra le figure più promettenti della sua generazione, è Povera gente (1846). In esso per la prima volta Dostoevskij adotta la formula epistolare che gli era congeniale, per consentire ai suoi personaggi di mettere a nudo mimeticamente i desideri e i timori, nell’immediatezza di una comunicazione senza il filtro di alcuna voce narrante esterna.

Semplice la trama, e persino esile. Makar Devuškin, un impiegato di basso rango, vive in condizioni di estrema povertà in un ambiente oppressivo e senza prospettive. Ma pure, contro tutte le difficoltà materiali, si ingegna come può per aiutare la giovane vicina Varvara, orfana e altrettanto indigente, instaurando con lei uno scambio epistolare accorato a cui affidare sofferenze, sogni e speranze. Un po’ alla volta, tuttavia, il non più giovane Makar sviluppa nei confronti di Varvara un sentimento che scavalca la semplice amicizia, ma che non può avere uno sbocco positivo proprio perché essa stessa, per sfuggire alle sue altrettante rigorose ristrettezze, a una vita di stenti e forse alla caduta nella depravazione, non vede altra soluzione che un matrimonio di ripiego.

     Distinti e complementari i caratteri di queste anime separate nell’età ma affratellate nella ristrettezza, e capaci di entrare in sintonia l’una con l’altra. Makar, pur traboccante di gentilezza e generosità, timido e insicuro com’è non sa farsi valere abbastanza in un contesto ottuso, arrogante e materialistico; mentre Varvara, fragile e vulnerabile, spera nel riscatto sociale. È che entrambi devono barcamenarsi nella dura realtà di emarginati che lottano ogni giorno tra sacrifici e umiliazioni, su cui altro conforto non brilla se non quello della solidarietà e della comprensione. Ed è proprio qui che lo scrittore ci fa sentire che il degrado materiale non esclude la nobiltà d’animo. Sicché queste anime umiliate e offese, relegate ai margini della società tra gente meschina e opportunista che esercita il cinico potere dei viscidi speculatori, albergano un universo di delicatezza interiore, che lo scrittore fa emergere con un ininterrotto scavo psicologico, gettando luce sugli abissi della loro miseria.

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     Nota è la vicenda dei colpi battuti di notte alla porta di Dostoevskij, per annunciargli l’entusiasmo del famoso critico Belinskij, che salutava, non senza equivoci, l’apparizione di un capolavoro; e che nella vicenda che aveva come protagonisti appunto “povera gente” senza grado, mezzi economici o titoli, leggeva il dramma delle persone comuni, che senza prospettiva di sollevarsi riempivano le strade di Pietroburgo e della Russia. Non personaggi di rango, dunque, o di alta estrazione, il giovane scrittore aveva eletto a eroi della storia, ma due emblematiche figure in cui condensare i disagi, le sofferenze, le restrizioni, l’angoscia, la disillusione, l’emarginazione di un popolo abbrutito dagli stenti, ma presso cui non latitava la solidarietà né la nobiltà d’animo che nemmeno il bisogno poteva offuscare. Caratteri che sarebbero ritornati spesso nell’opera di Dostoevskij, e che accompagnandolo come una costante avrebbero avuto incarnazioni possenti nei grandi romanzi della maturità.

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