Il travaglio che l’umanità sta vivendo, tra guerre mondiali a pezzi, individualismi esasperati, fenomeni di violenza sempre più accentuati dovrebbe indurre a una riflessione generale e il mondo intellettuale in questo senso può avere il suo peso, se solo prendesse/volesse prendere posizione. Qualche mese fa Giornate di lettura con un pezzo che potete ritrovare qui (https://giornatedilettura.com/2025/04/08/precht-sternheim/) aveva anticipato l’uscita della recensione di Stefan Zweig. La fine di un mondo, saggio biografico dell’ottimo Raoul Precht per le meneghine Edizioni Ares dedicato allo scrittore, poeta, drammaturgo, librettista, uomo di cultura d’origine austriaca ed ebraica, epigono di spicco della Jungwien (la Giovane Vienna), tra i più impegnati nel campo della pace nonché umanista convinto.

Ancora oggi letto, discusso, venduto, Zweig è l’autore del “ciclo dei vinti”: i poveri, i diseredati, gli afflitti erano i protagonisti delle sue opere, segnatamente nelle novelle e nei romanzi, anche se la sua è stata un’onnivora passione per la cultura in senso lato. Precht racchiude in poco meno di 190 pagine il condensato di un’esistenza vivacissima non priva di contraddizioni certo, ma in continuo mutamento, sempre intrisa di coraggio, di sguardo sull’avvenire, di nuove sfide da cogliere e, perché no, da vincere, perfino con un accento europeista ante litteram. Cifra precipua degli scritti dell’austriaco, che fino al 1933 fu l’intellettuale maggiormente venduto e tradotto al mondo con oltre un milione e mezzo di copie, è il genere delle biografie, quello nel quale ha saputo eccellere come pochi, forse perché capiva più e meglio di altri il personaggio scelto o forse perché ha còlto quegli elementi che, proprio per il suo invidiabile ed enciclopedico sapere, venivano ignorati da altri. I volumi su Maria Stuarda, Maria Antonietta, Magellano sono pietre miliari che hanno segnato un’epoca, così come quelli dedicati a Emile Verhaeren e Romain Rolland, tuttora fonti necessarie per approfondire queste figure, ma sarebbe fare un torto a Zweig derubricarlo a pur ottimo biografo. Nella sua travagliata esistenza (due matrimoni, la Grande Guerra attraversata da pacifista, il sopraggiungere del nazismo inizialmente tollerato o minimizzato, le frequenti crisi depressive, il desiderio sofferto di emergere a tutti i costi nell’ambito letterario, l’autoesilio e la scelta suicida finale) passa un’epoca, quella del Primo Novecento, tra slanci in avanti e drammatiche regressioni.

I suoi testi sono permeati da questa atmosfera cangiante che non di rado miscela psicanalisi (conobbe e fu amico di Sigmund Freud) e finzione: ecco ad esempio che mentre il suo tempo poneva il sesso come elemento ripugnante in letteratura, soprattutto per i giovani, Zweig ne fece la base portante del plot delle sue opere, in particolare racconti e novelle. In queste ultime mostrò il suo anelito alla pace già prefigurando gli orrori a cui, per sua fortuna, non poté assistere, si pensi a “L’obbligo”, apparso nel 1920, per non tacere della precedente dal titolo “Bruciante segreto”, del 1911, dove assistiamo allo sbocciare di Edgar dall’infanzia all’adolescenza, con tutto ciò che ne consegue quanto alla “favola edipica”. “Lo scrittore austriaco – scrive Precht, che arricchisce il suo testo con un interessante apparato fotografico – indaga sulle passioni più inconfessabili e sulle circostanze estreme che spingono l’individuo ad azioni e reazioni altrimenti impensabili”. E ricorrendo a molti dei “topoi” dell’epoca egli riesce a movimentarli offrendo nuove chiavi di lettura e un differente procedimento di osservazione. È nel racconto lungo “Novella degli scacchi”, la cui uscita si data tra la fine del 1941 e l’inizio del 1942, che troviamo tutto il sostrato del suo pensiero, dietro una metafora ardita della tregenda che di lì a poco si sarebbe abbattuta sull’intera Europa. Fu, di fatto, il suo testamento spirituale, una lucida confessione, dissimulata dietro un’apparentemente innocua partita a scacchi, dello scontro tra forti e deboli: scontro o meglio deriva drammatica verso il gorgo concentrazionario che è richiamata anche in “Vita di Erasmo da Rotterdam”.
Qui è Martin Lutero, acerrimo nemico del primo, a finire per essere paragonato al Führer, per la sua tracotanza, la sua violenza, il suo astio nei confronti del pensiero erasmiano che, per Zweig, è di fatto il brodo primordiale di quell’europeismo fiorito nel Secondo Novecento e, ahinoi, in netta crisi e regresso in questo nostro tempo. Il suo capolavoro resta “Il mondo di ieri. Ricordi di un europeo”, romanzo-memoir parzialmente autobiografico che nelle intenzioni dell’autore avrebbe dovuto coprire tutto il periodo della sua vita, ma che per gran parte è riservato al periodo fino alla Grande Guerra e ai successi ottenuti nell’immediato periodo successivo. Letterato sì, ma con una passione curiosa e coriacea per il collezionismo, segnatamente per opere d’arte e lettere autografe: Zweig, nella sua incorrotta passione per la conoscenza, nel corso del tempo arrivò a possedere un biglietto di Beethoven e una lettera di Goethe, diversi oggetti appartenuti a musicisti del passato e persino un discorso autografo di Hitler, un patrimonio inestimabile di cui dovrà per gran parte disfarsi alla metà degli anni Trenta quando, complice il regime nazista che iniziava ad allungare i suoi tentacoli sull’Europa con una prima recrudescenza contro gli ebrei, deciderà di lasciare per sempre l’Austria per dirigersi prima a Londra, quindi in Brasile dove il 22 febbraio 1942, a Petropolis, si toglierà la vita ingerendo barbiturici insieme con Lotte, la sua seconda compagna. Collezionare, per lui, era una forma di compensazione ai mancati successi e soprattutto alla scarsa o modesta considerazione in cui era tenuto dai giganti dell’epoca o di fronte ai quali sapeva di non poter esprimere le stesse qualità.
Vorrei chiudere questa recensione riprendendo le dichiarazioni rilasciate nel 1932 da Zweig e contenute a pagina 107 del volume in questione, così lontane e così ancora drammaticamente vicine:
Se in Europa non riconoscessimo più alcuna opposizione o superiorità tra di noi, se non sottolineassimo con ostilità le differenze, se ammirassimo spontaneamente le superiorità individuali di una nazione rispetto all’altra, allora ci eleveremmo verso quella forza morale che è sempre stata decisiva nella storia di tutti i tempi. […] dobbiamo fondere tutte le nostre differenze e gelosie nella passione per questo obiettivo più grande, che è la lealtà al nostro passato condiviso e la fede in un futuro da condividere.
Una testimonianza su cui sarebbe bene meditare.


Grazie!!!
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