IL BUDDISMO, UNA MEDICINA PER LO SPIRITO O QUALCOSA DI PIÙ? (recensione di Vittorio Panicara da «Il buddhismo» di Giangiorgio Pasqualotto, prima parte)

Cos’è veramente il buddismo? In che rapporto è con il nostro modo occidentale di pensare? Cosa significa essere buddisti?

Rispondere in modo esauriente a domande del genere non è facile, ma la lettura de «Il buddhismo, i sentieri di una religione millenaria» (Milano 2003, Bruno Mondadori) di Giangiorgio Pasqualotto, professore di Estetica e Storia della Filosofia a Padova e autore di molti saggi sul tema, può aiutarci a farcene almeno un’idea, senza pretese di esaustività.

Dei sei capitoli esamineremo in due volte solo quelli teorici, i primi tre: «Aspetti generali», «L’etica», «I principi teorici»; gli altri, sulle scuole buddiste (ho scelto la grafia oggi più comune, senza la h), l’Occidente e l’Italia, sono ricchi d’informazione, sono utili ma un po’ datati. Lo scopo di questa recensione, del resto, è quello di far luce su alcuni aspetti della dottrina e della predicazione buddista, senza aggiungere dati o notizie sulla sua diffusione. Un’altra premessa è necessaria: “mescolerò” i contenuti dei tre capitoli in un discorso magari generico (la materia è complessa, a volte ostica) ma possibilmente omogeneo e strutturato in modo possibilmente chiaro, con pochissimi  termini tecnici di lingua pali o in sanscrito per facilitare la comprensione. Ho infine individuato due nuclei tematici – l’etica e la concezione della realtà – a cui ho dedicato due recensioni separate. Quella che state leggendo è la prima.

Non v’è dubbio che il buddismo nasca da un’approfondita riflessione sul problema del dolore. Nella celebre Predica di Benares il Buddha storico – principe Siddharta Gautama Sakiamuni – enuncia le sue Quattro Nobili Verità, nocciolo del suo pensiero:

  • il dolore è presente in tutti i momenti della vita e in molte maniere;
  • il dolore trae origine dalla brama ossessiva dei piaceri e dalla volontà esagerata di autoaffermazione o, al contrario, di autodistruzione;
  • è possibile e necessario il distacco da questa sete del piacere;
  • il rimedio al dolore è nell’l’Ottuplice Sentiero, che consiste in otto precetti ed è detto anche Sentiero di Mezzo (lo stesso Siddharta – si usa qui il patronimico – aveva dato prova di cercare la verità evitando sia l’esaltazione che la mortificazione dei piaceri del corpo, vie nocive nel percorso verso l’illuminazione).

Notevole l’affinità delle Quattro Nobili Verità con lo schema di Ippocrate: la diagnosi, l’eziologia, la prognosi, la terapia. In effetti l’intento dell’insegnamento fondamentale buddista è quello di indicare  un rimedio all’infelicità e al dolore, una “cura dell’anima” che ricorda lontanamente il pharmakon di Epicuro di Samo. Notevoli anche le analogie con il pensiero di Schopenhauer (ovviamente quello del Mondo come volontà e rappresentazione).

Ma prima di spiegare la quarta Nobile Verità, la più importante per l’etica buddista, vale a dire l’Ottuplice Sentiero, è necessario fissare alcuni capisaldi del discorso:

  • Siddharta, divenuto il Buddha («risvegliato») nel 531 a.C., voleva indicare la via alla verità che il “risveglio” o “illuminazione” gli aveva mostrato. Non intendeva far altro che invitare alla ricerca della verità, senza imporne una assoluta, un credo o la fede in un Dio (egli stesso non lo è e non è figlio di Dio), e soprattutto senza proporre dogmi o una particolare metafisica.
  • L’esperienza di Siddharta è solo umana. Ogni uomo può divenire un Buddha, cioè un risvegliato, senza discriminazioni sociali (da qui la novità e lo scandalo per la società induista; Siddharta stesso apparteneva alla casta sacerdotale più alta, i Brahmani). L’universalità del messaggio permetterà la nascita di varie scuole buddiste, senza che una di queste possa dirsi depositaria della verità a scapito delle altre.
  • Se il maestro buddista è una guida, un “amico spirituale”, nella via alla verità e mette in guardia dai pericoli, egli ha anche il compito di limitare le pretese della ragione di comprendere e spiegare tutta la vita e il mondo. La nostra conoscenza, se vuole evitare la contraddizione, deve essere limitata a tutto ciò che è verificabile empiricamente (con una particolare consonanza con la kantiana «Critica della ragion pura»).

Queste precisazioni sono importanti e mostrano tutta la distanza che intercorre tra il buddismo, ammesso che sia una religione, e le tre religioni monoteistiche, che non solo si rifanno alla figura di un unico Dio, ma si basano su testi sacri depositari del Verbo e su una dogmatica complessa, non sempre interpretabile univocamente, che non ammette dissenso alcuno. Solo un monoteismo può o deve reprimere chi contesta la verità rivelata o i dettami della chiesa. Un clero vero e proprio, nel buddismo, neppure esiste.

I precetti dell’Ottuplice Sentiero, che converrà a questo punto riassumere, sono norme finalizzate alla realizzazione del giusto comportamento morale, ma attengono solo a un primo livello di verità e non esauriscono tutta l’etica buddista; l’Ottuplice Sentiero, di per sé, non conduce ancora all’illuminazione.

Gli otto precetti sono i seguenti:

  1. Giusta visione delle tre precedenti Verità e della natura illusoria (anatta) di ogni realtà sensibile e sovrasensibile; siccome ogni essere dipende dagli altri, badare agli altri significa anche badare a se stessi.
  2. Giusta intenzione, che implica il non attaccamento ai beni, l’obbedienza alle regole, ma non in modo formale; la benevolenza verso tutti gli esseri viventi, con il comando di non-nuocere.
  3. Giusta parola, vale a dire evitare, tra l’altro, l’ingiuria, la calunnia, la menzogna (attività che mostrano la troppo forte posizione dell’io rispetto alla realtà).
  4. Giusta azione: non uccidere (azione per la quale non può esistere alcuna giustificazione religiosa; il problema di una guerra giusta nel buddismo non si pone), non prendere ciò che non è dato, evitare i rapporti sessuali illeciti, non offendere, evitare le sostanze inebrianti (sono le norme comuni ai laici e ai monaci).
  5. Giusto comportamento: evitare danni agli altri esseri viventi, come la caccia o il commercio di armi.
  6. Giusto sforzo per far nascere e sviluppare stati mentali positivi, in cui l’io cessa di considerare se stesso centro di ogni significato e di ogni valore.
  7. Giusta presenza mentale intesa come attenzione saggia, o consapevole, dal corpo (con particolare riferimento al respiro) alle attività sensoriali e mentali (dove la realtà è pensata come processo).
  8. Giusta concentrazione (o assorbimento), che culmina nella calma nella riflessione, nella gioia e serenità, e nell’equanimità, o imparzialità (una delle quattro Dimore Divine, tra cui la compassione e l’altruismo).

In realtà gli otto precetti si possono raggruppare in Saggezza (i primi due), Moralità (dal terzo al quinto) e Disciplina Mentale (gli ultimi tre), mentre la loro applicazione richiede la vita in comunità, che è la sola possibile e «porta alla liberazione e compagnia di amici virtuosi, puri e diligenti» (Samyutta Nikaya). L’individuo isolato, come si vedrà, in realtà non esiste…

Fin qui l’etica buddista riguardante l’ascesi e l’elevazione spirituale del singolo nella comunità dei praticanti. Ma il cammino verso l’illuminazione e il nirvana non è affatto concluso, perché occorre l’accesso al secondo livello di verità, più profondo e meno accessibile. Per spiegarne le caratteristiche è necessario soffermarsi sulla concezione buddista della realtà e della vita.

2 commenti

  1. potrebbe essere una lettura interessante, grazie per la dritta…
    sono stato a marzo in Sri Lanka, paese a maggioranza buddhista (di scuola Theravada, che è diversa da quella prevalente, ad esempio, in Tibet), e la guida mi ha affascinato con le sue spiegazioni sul buddhismo…
    ho cercato in seguito dei libri e ne ho letto uno che ho trovato però un po’ sempliciotto… potrei dare una chance a questo…

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    • L’autore è un vero esperto. Il libro non ha una struttura sempre chiara, ma approfondisce abbastanza i problemi. La seconda parte della mia recensione, non ancora scritta, affronterà contenuti più complessi.

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