Il mio rapporto con Thomas Mann, a 149 anni dalla sua nascita

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Una passeggiata a Kilchberg

Mese fecondo di anniversari, quello di giugno! Abbiano appena ricordato il centenario della morte di Kafka, ed ecco che subito si fa avanti a richiedere il dovuto omaggio un altro colosso, al quale peraltro già pensiamo di dedicare nel prossimo anno un’attenzione particolare per il centocinquantesimo della nascita. Sto parlando ovviamente di Thomas Mann, nato appunto il 6 giugno del 1875 a Lubecca e morto a Zurigo il 12 agosto 1955, e sulla cui tomba a Kilchberg mi sono recato più volte per “salutarlo” da vicino (l’ultima volta insieme al caro e compianto amico Roberto Pazzi).  

Scrittore prolifico e complesso, tra i grandi del Novecento, che spesso si sono realizzati in un unico grande libro (La Recherche, L’Ulisse, Il Processo), Mann spicca per la quantità di capidopera sfornati (I Buddenbrook, La morte a Venezia, La montagna incantata, la tetralogia di Giuseppe e i suoi fratelli, Il dottor Faustus), per dire dei maggiori, accanto a quali si situano molti racconti lunghi (tra cui lo splendido Tonio Kröger) e altri romanzi “minori” (Charlotte in Weimar) che da soli basterebbero alla gloria. Nell’impossibilità pertanto di dare anche una minima idea della portata della sua opera, mi limiterò qui a rievocare il mio lungo rapporto con essa.

Il nostro incontro fu in verità piuttosto tardivo. Tra gli autori divorati negli anni di liceo e università, Mann mancava interamente. Avevo letto un bel po’ di russi, francesi, inglesi e tedeschi, ma nei suoi riguardi continuavo ad esitare, per via del pregiudizio marxista che si trattasse di un autore “borghese”, il cui successo si spiegava col fatto di essere un figlio di papà (senatore), privilegiato e raccomandato. Fu dunque questa stupida riserva a frenarmi: tanto che quando presi in mano I Buddenbrook ero già bell’e disposto a una stroncatura coi fiocchi, a partire da quell’attacco da moviola filmistica ( “Was ist das – Was – ist das”), a cui sarebbero seguite indubbie banalità…

Solo che… solo che, mano mano che procedevo nella lettura, ogni tanto consideravo: sì, questa frase non è sciocca, ma sarà un caso… sì, quel personaggio sembra credibile, ma si squalificherà presto… sì, la storia è lenta e noiosa… però, però non scrive poi tanto male, anche se persino un analfabeta può essere corretto… ma insomma, vediamo… vediamo… E così, di sospetto in sospetto, di perplessità in perplessità, di sorpresa in sorpresa, pur volendone a me stesso per non riuscire a trovare le sperate falle, mi accorgevo controvoglia che le riserve stavano cedendo… Finché, intorno alle centocinquanta pagine, gettai infine la spugna. Non nel senso che lo mollai, beninteso: ma per arrendermi all’evidenza che, mi garbasse o no, quell’autore di neanche venticinque anni aveva composto un capolavoro! Da allora, colpito da “mannite” acuta, e persuaso anche dall’uso dei leitmotiven wagneriani (da cui ero allora travolto e che avrei a mia volta adottato), mi immersi fino al collo nell’opera di Mann. E non ho più smesso di leggerla, sedotto di libro in libro dalla qualità di una scrittura che non concede nulla a lettori frettolosi, e se pur richiede qualche sforzo, ripaga poi abbondantemente del tempo impiegato. Né ho mai mancato di consigliarlo a quei lettori (e ci sono!) che alla narrativa chiedono qualcosa di più sostanzioso di ogni loffa sbarcata dagli States, pregna di frasi monche e turpiloquio… Ma di questo, a dio piacendo, parleremo meglio il prossimo anno. Per intanto, lunga vita letteraria al “mago”!


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