Nel cuore della Scandinavia: “Storie di gente felice” di Lars Gustafsson

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La letteratura e la realtà, l’essere umano e l’invisibile, quanto noi ci conosciamo e quanto invece di ciò dal di fuori è riconoscibile? E la letteratura giustappunto in cosa può aiutarci nel cammino di sperimentazione di un nuovo Io più completo? Sono domande che si ricollegano a un bel romanzo di Lars Gustafsson (1936-2016), scrittore, poeta e filosofo svedese pluripremiato e già docente nell’Università del Texas, dal titolo “Storie di gente felice” che la casa editrice milanese Iperborea, specializzata nella diffusione della letteratura nordeuropea ma ampliatasi recentemente su ulteriori orizzonti, ha pubblicato qualche tempo fa per la traduzione di Carmen Giorgetti Cima e l’approfondita postfazione di Ingrid Basso. Si tratta della quinta opera dell’autore scandinavo per la stessa realtà milanese, apparsa per la prima volta in Svezia nel 1981 e qui, più ancora che nei precedenti quattro romanzi, è palpabile, immediatamente percepibile la sua abilità di penetrare nei territori della scienza, della matematica e della fisica così come nei meandri più filosofici e letterari in ciò ponendosi con felice esito in quel limbo dove tutto è dicibile. Gustafsson, seguace delle teorie di Wittgenstein, affronta attraverso una decina di racconti e con personaggi che in diversi casi sono il suo alter ego certe spigolosità e contraddizioni della nostra modernità portandoci lungo il crinale della storia, tra le guerre mondiali e la Rivoluzione culturale cinese, tra gli anni Cinquanta e i Settanta per comprendere quanto davvero sia complesso e inesprimibile la mente umana, labile e fluida, incespicante e controversa, difficilmente incasellabile e perennemente in cerca di un suo centro di stabilità. Non lascia nulla di intentato nella sua scrittura questo autore, ma offre anzi al lettore molteplici opportunità di riflessione e ricorrendo sovente, senza tedio né leziosità, a una sottile e vaga ironia di fondo che dà al corpus dell’opera una vena nostalgico-idilliaca. Scrittore antinaturalista per eccellenza (siamo dunque lontani dai mondi di un suo connazionale come August Strindberg), vicino al movimento simbolista, Gustafsson anche in questo caso si mostra scrittore dall’affascinante erudizione, capace di scandagliare i comportamenti umani alla ricerca di quel significato precipuo che ciascuno è chiamata a enucleare nella propria vita, in un percorso tra introspezione da una parte e profonda osservazione dall’altra. I personaggi trovano una loro accomodante, talvolta singolare felicità eppure c’è sempre qualcosa a turbarli, a frenarne gli slanci emotivi, a incutere timori, a provocare angoscia, poco importa che le storie si dipanino nel Nord Europa o negli Stati Uniti, in Cina o nell’Europa Meridionale poiché il leit motiv, il refrain sono sempre gli stessi: il mondo inaffidabile, una maglia rotta nella rete, l’inesprimibile e l’impensabile che si palesano di fronte a noi come epifanie improvvise per arrivare a tematiche più ampie come il carrierismo, la dimensione sentimentale-erotica (qui appena accennata in un paio di testi), il lavoro, l’ambiente naturale che per un autore nordeuropeo permea sempre la propria scrittura. Ci troviamo concordi con quanto asserisce in postfazione Cima: “Le parole stesse per lui sembrano stagliarsi come tante pietre affioranti sulle quali scivolare e dalle quali però prendere anche lo slancio per affrontare l’avventura rischiosa del dire se stessi”. Rischio, dunque, ma anche coraggio o più semplicemente spontaneità: come cogliamo proprio nell’explicit del decimo e ultimo racconto breve il personaggio prende “congedo” dal pensiero degli amici ormai lontani nel tempo con la consapevolezza che la vita può essere felice se abitata dalla leggerezza “e che esiste solo per chi è capace di ridere e danzare”. Una filosofia elementare, a prima vista, ma anche un insegnamento prezioso che “abbraccia” tutta l’opera letteraria di Gustafsson tanto nei testi di maggiore riflessione in cui l’aspetto onirico-fantastico non è esente tanto in quelli più attenti alla razionalità sino ai racconti “impossibili” contenuti in “Storie di gente felice” dove il tempo e noi stessi siamo altrettanti grandi e misteriosi.

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