PARMENIDE: IL FILOSOFO DELL’ESSERE

Briciola di filosofia #17

Trovate le puntate precedenti, sulla pagina dedicata a questa rubrica: Briciole di filosofia


Contemporaneamente alla scuola di Mileto, nella colonia campana di Elea ne era sorta un’altra di orientamento diverso e complementare, e che al materialismo degli ionici contrapponeva un principio ideale. Se solo parzialmente ad essa si può rapportare Senofane, di cui ci siamo occupati nell’ultima briciola, il suo fondatore e l’esponente più rappresentativo fu Parmenide, una delle menti più complesse della storia del pensiero occidentale. Già da Platone definito “venerando e terribile”, Parmenide compose un poema in versi, dal consueto titolo Sulla natura, dai cui frammenti apprendiamo come, condotto su un carro trainato dalle Figlie del sole al cospetto della Dea che guida alla verità, da essa aveva appreso la differenza tra le due vie di ricerca: quella dell’opinione (doxa), e quella della persuasione (Aletheia).

Si tratta di due approcci che rinviano a due distinte facoltà conoscitive, che poi resteranno costanti per tutto il pensiero greco e per l’intera tradizione occidentale. Da un lato c’è la sensazione, che si affida alla testimonianza dei sensi, ed è pertanto mutevole e inaffidabile col suo miscuglio di essere e non-essere, per cui i mortali sembrano possedere “una doppia testa”. Mentre dall’altro c’è la via della ragione, che dice che l’essere è e non può non essere:

“L’essere mai era né mai sarà, perché è ora tutto insieme, uno, continuo. Infatti, quale origine gli vuoi cercare? Da dove nascerebbe? Dal non essere, non ti permetterò né di dirlo né di pensarlo, giacché non si può dire né pensare ciò che non è. E quand’anche fosse, quale necessità potrebbe averlo spinto a nascere prima o dopo? Perciò è necessario o che sia del tutto o che non sia per nulla.”

Se l’essere è caratterizzato dalla necessità intrinseca di essere, e può essere colto solo dal pensiero, il non-essere non solo non è, ma non è neanche pensabile, perché non si può pensare qualcosa che non è. Ma se solo il pensiero può cogliere l’essere, significa che esiste una relazione indissolubile tra essere e pensare e dire, che sono dunque la stessa cosa. Né si può immaginare una cosa inesistente, dal momento che già pensandola le diamo realtà; e analogamente non si può affermare qualcosa, senza renderla presente nella parola che la esprime. 

Quanto ai suoi caratteri fondamentali, l’essere è eterno (altrimenti proverrebbe dal non-essere o andrebbe a finire nel non-essere, che però non è). L’essere è ancora uno e indivisibile (se fossero due, sarebbero separati dal non-essere). È inoltre immobile (non potendo venire dal non-essere né andare verso di esso). È compatto (cioè privo di parti, altrimenti le parti sarebbero distinte dal non-essere). Esso è insomma simile al pieno assoluto di una perfetta sfera, di uguale forza dal centro in tutte le direzioni.

Con questa dottrina Parmenide si erge contro la validità dell’esperienza sensibile, che ci presenta le cose come molteplici, in movimento, e composte di parti. Tutto ciò non è che opinione fallace. Per questa illusione dei sensi il mondo ci appare composto da una miriade di cose, ciascuna delle quali è uguale a se stessa ma disuguale alle altre. Si tratta perciò di cose che al tempo stesso sono e non sono. Invece la realtà è una, immobile ed eterna.

Per capire questo difficile concetto, è necessario tener presente che la mentalità arcaica, ignorando distinzione tra metafisica, logica e linguaggio, era spontaneamente orientata verso un’immediata corrispondenza tra i tre piani della realtà: quello ontologico (della realtà oggettiva), quello gnoseologico (della conoscenza), e quello espressivo (del linguaggio che li esprime). Se teniamo distinti quei tre piani, cadiamo nella trappola della molteplicità e del movimento. Ma se invece li fondiamo, la difficoltà scompare. Una cosa esiste per il fatto di essere, per il fatto di essere pensata e per il fatto di essere espressa. I tre piani coincidono, poiché nulla esiste all’infuori di loro, e tutto vi rientra. E se l’essere coincide anche col pensiero e con la parola, ecco che non-essere si offre solo a coloro che non sono in grado di cogliere quell’identità, e alimentano la falsa opinione che la nascita e la morte, il divenire e il mutamento, e quindi il non-essere, siano reali. Mediante la ragione è invece possibile comprendere che non si può pensare né dire il non-essere, perché non si può pensare senza pensare qualcosa che è, e pensare il nulla sarebbe come non pensare affatto, essendo il pensiero sempre pensiero di qualcosa che è.

Il questo modo Parmenide, scardinando la conoscenza intesa come esperienza sensibile, si pone forse a capostipite dell’idealismo, come si è venuto sviluppando nel periodo romantico? Solo in parte, se si considera che nella sua riflessione permane qualche residuo di materia (sfera), e l’essere non ha una dimensione puramente mentale. Il carattere essenzialmente logico del principio di identità come unità indifferenziata lo situa casomai al di qua della biforcazione tra idealismo e materialismo, che pure prepara. Ma come che sia, la sua presenza sarà ancora massiccia nel Novecento, con il forte richiamo all’essere di grandi pensatori come Heidegger o Severino.


 

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