5 romanzi che hanno plasmato il genere gotico

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Il GDL di Giornate di lettura dedicato quest’anno al romanzo gotico si concentra su quelli che del genere gotico anche allargato sono i migliori esempi, come Frankenstein, Jane Eyre, Il dottor Jekyll e Mister Hyde, e infine Dracula. Chese sono i migliori non sono però certo gli unici, visto che molti altri concorsero al topos. Alcuni con fortuna duratura, altri appena frutti di stagione, ma comunque intrisi della sensiblerie da cui doveva scaturire tutta una serie di opere scritte tra il 1760 e il 1820, con caratteristiche comuni. Come l’insistenza sul soprannaturale, l’ambientazione medievaleggiante, la presenza di personaggi stereotipati, castelli infestati, sinistre profezie, esangui giovincelle concupite da sordidi libidinosi dal passato equivoco, vampiri, mostri e fantasmi. Oltre i poeti notturni e sepolcrali, come Young e Gray, aveva preparato il terreno anche la dottrina di Burke sul sublime, che poco aveva da spartire con quella elaborata nel III secolo da Longino. Si trattava ora del cosiddetto “sublime del terrore”, che più che sull’estasi generata dalla bellezza faceva leva su oscuri e ancestrali terrori dell’umanità, che la compostezza neoclassica si era solo illusa di domare. Non potendo ovviamente ricordare tutti i romanzi che videro la luce in quel periodo, e che vanno sotto la stessa etichetta, ci piace almeno ripescarne i cinque che meglio ne mostrano le peculiarità.

Cominciamo con Il castello di Otranto di Horace Walpole, pubblicato nel 1764, e scaturito per ammissione dell’autore da un sogno, come poi sarà anche per Mary Shelley. L’azione, ambientata in uno stereotipato medioevo italiano (e chissà perché tante trame gotiche ebbero per sfondo l’Italia e per protagonista qualche nostro losco compaesano…), presenta Manfredi, signore di Otranto, ossessionato dall’incubo di una profezia secondo cui la sua stirpe continuerà a regnare solo finché il legittimo sovrano non sarà diventato troppo grosso per abitare il castello. Anche a una lettura superficiale ci si rende subito conto della puerilità del meccanismo narrativo, così scoperto e prevedibile da bandire ogni apnea di suspense, malgrado gli effettacci orrorifici che sono gli ingredienti basilari dei tales of terror.

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Pare che il Vathek di William Beckford, steso a imitazione dei racconti orientali di Voltaire e perciò di ambientazione non canonica, fosse stato scritto in tre giorni e due notti, originariamente in francese e poi pubblicato in inglese nel 1786. Accelerazione che però non si avverte nella storia del califfo Wathek, nipote di Hārūn al-Rashīd, che per ottenere l’onnipotenza si mette al servizio del Maligno, in un crescendo di peripezie, fino a perdere il più prezioso dono del cielo, ossia la speranza. Il racconto, di buona ed elegante fattura, ottenne la non ignobile sorte di essere considerato da Byron la sua bibbia, e di incantare più tardi anche uno schizzinoso come Stéphane Mallarmé.

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Il monaco di Mattew Lewis, pubblicato nel 1796 quando l’autore era appena ventenne, narra di un priore dei cappuccini di Madrid di nome Ambrosio, che, tentato dalla dissoluta Matilde infiltratasi nel convento sotto panni maschili, diventa invece l’amante di una delle sue penitenti, che riesce a piegare con la magia. Meno bene gli vanno le cose quando, condannato a morte per omicidio, stringe un patto di salvezza col diavolo, che però, da malandrino qual è, al momento buono lo pianta in asso. Il romanzo, farcito di episodi sanguinosi e oscenità, nonché di tutti gli elementi propri del genere (castello, abbazia, fantasma, violenze, stupro, incesto e presenze demoniache), tradisce tuttavia un’inaspettata conoscenza delle ballate di Bürger e dei drammi di Schiller. E anche se costellato di bizzarrie e ridicolaggini, non manca di potenti scene di terrore e sensualità, che tanto alimento daranno a certo romanticismo deteriore. Caduto poi nel dimenticatoio, per la sua carica trasgressiva e libertina fu riscoperto e riportato in auge nel secolo scorso da Artaud e Breton, che lo citarono più volte nei loro scritti.

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L’italiano o il confessionale de Penitenti Neri di Anne Radcliffe, pubblicato nel 1797 come il precedente Udolpho presenta atmosfere cupe, personaggi candidi tiranneggiati da spregiudicati privi di scrupoli, colpi di scena e misteri insolubili. E mette in scena una candida fanciulla perseguitata da un losco monaco (guarda un po’ pur esso italico!) di ignota origine, senza scrupoli e morale, ma che poi inaspettatamente esibisce una coscienza superiore alla sua sete di potere! Tanto bastò perché l’abito facesse stavolta il monaco, melanconico e dal viso pallido, sì che l’aspetto satanico di questo figuro tanto piacerà ai romantici (ripreso da Byron nel Giaurro). E pazienza se, insieme alla dovizia melodrammatica di agnizioni e pugnali avvelenati, alla fine tutto si risolve italianamente in tarallucci e vino.

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Melmoth, l’uomo errante di Charles Robert Maturin, pubblicato nel 1820 e dunque due anni dopo il Frankenstein, narra del patto che il protagonista fa col diavolo (non dimentichiamo che la prima parte del Faust di Goethe era stata pubblicata nel 1808), cedendo l’anima in cambio del prolungamento della propria vita. Successivamente Maturin vi aggiunse tutta una serie di racconti, con una protagonista femminile dal carattere simile all’Haydée di Byron e un destino analogo a quello della Gretchen goethiana. Non mancano ovviamente le consuete scene di terrore e raccapriccio: ma qui sono narrate con raffinatezza e un pathos sincero, che piacquero ad autori del calibro di Scott, Poe, Stevenson e Baudelaire, per non dire di Balzac che ne trasse altri effetti nel suo Melmoth riconciliato. Né c’è troppo da sorprendersi se Oscar Wilde, che di Maturin era il pronipote, dopo l’uscita di prigione si faceva allegramente appellare Sebastian Melmoth, pseudonimo in cui fondeva il proprio destino con quello del personaggio e del santo plurinfilzato… 

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