Protagora: L’uomo come misura di tutte le cose

Briciola di filosofia #24

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Trovate le puntate precedenti, sulla pagina dedicata a questa rubrica: Briciole di filosofia


Iniziatore della corrente sofistica fu Protagora, nato ad Abdera intorno al 485 e morto a 70 anni in un naufragio mentre navigava verso la Sicilia. Peregrino per molti decenni tra le varie città greche per le necessità della vita, ottenne ovunque largo consenso presso i giovani, sempre disposti ad accogliere critiche verso il potere costituito e le convenzioni, ma affascinati soprattutto dalla sua cultura, dalle sue tesi spregiudicate e dissacranti, esposte in maniera magistrale. Ciò non impedì che, malgrado l’amicizia di Pericle, fosse costretto a fuggire da Atene, come già aveva fatto Anassagora, per l’accusa di empietà mossa alla sua concezione degli dèi.

Della sua opera Sulla verità, con sottotitolo Ragionamenti demolitori che è tutto un programma, restano solo alcuni frammenti, tra cui la celebre formula riassuntiva del suo pensiero:

       L’uomo è misura di tutte le cose: di quelle che sono in quanto sono, e di quelle che non sono in quanto non sono.

Si tratta molto di più di un gioco di parole. Se probabile, nella sua concezione, è l’influenza eraclitea del divenire per cui tutto scorre e muta, e dunque non ci sono punti fissi e certezze, certa risulta invece la sua opposizione all’essere eterno, uno e immutabile di Parmenide. Forse anche accogliendo la dottrina atomistica per cui la realtà è composta di atomi che si uniscono e si separano in molteplici forme, Protagora non poteva che giungere alla negazione di quella visione compatta e indissolubile della realtà, fino a trarne la conseguenza che non esistono verità assolute e valide per tutti, ma solo particolari e relative. Sicché l’infamata opinione, la doxa parmenidea, si affermava per lui come l’unico criterio del sapere, essendo ogni verità dipendente dalla formazione, dalla cultura, dalla sensibilità e dalla specificità di ogni singolo uomo.

Se l’universo mondo è dominato dal divenire, per cui tutto muta e si trasforma, in assenza di una verità stabile tutte le opinioni assumono così uguale legittimità. Per rendersene conto, basta osservare come ciò che per un popolo è giusto non lo è per un altro, che le abitudini di una nazione sono condannate da un’altra, che le tradizioni etiche sono difformi, e che le modalità di convivenza variano da società a società, per ragioni storiche, psicologiche o climatiche. Lo stesso vale tra i singoli individui, tutti diversi e difformi, per i quali l’omogeneità di struttura non consente di inferirne l’adesione ai medesimi principi e ai medesimi valori. Come non vedere che il malato è altrettanto certo della sua percezione di quanto lo sia l’uomo sano, e che ciò che per uno è dolce può sembrare amaro per un altro? Ma se la sensazione è criterio di verità, la mia vale allora quanto la tua, altrettanto soggettiva e personale, e dunque non esistono opinioni vere o false, ma sono tutte ugualmente “verosimili”. Non è quindi la legge, la società, la tradizione o un fantomatico assoluto a imporsi; non è l’umanità astratta nei suoi principi ideali, o l’autorevolezza della tradizione a stabilire i criteri, ma solo il singolo uomo, nella sua irreducibile individualità, è metro di tutto.

     Ne consegue allora che tutti i discorsi intorno alla giustizia e alla virtù si riducono alla concezione che ognuno ne ha, e pertanto parlarne è pura tautologia. Né diversamente vanno le cose sul piano religioso, verso cui Protagora rivendicava uno scandaloso agnosticismo che gli valse appunto l’accusa di empietà:

      degli dèi non posso sapere se sono o se non sono. Molte cose infatti impediscono di saperlo, visto che non si manifestano e restano oscure, tenendo anche conto della brevità della vita umana…

Ci troviamo di fronte, come si vede, a un relativismo non solo gnoseologico ma anche politico e morale, per cui facile sarebbe sconfinare in un qualunquismo indifferenziato. Ma in un’ottica “sofistica”, Protagora non la pensa proprio così. Se è vero che non ci sono valori assoluti e che ogni opinione è legittima, è altrettanto vero che alcune valgono più di altre, non sul piano assiologico ma su quello utilitaristico. Ed è qui che la retorica, di cui Protagora era maestro, si rivela di fondamentale importanza, non per l’acquisizione della verità, ma per la capacità di far apparire “buone e vantaggiose cose che si ritenevano dannose”. In questo consiste la potenza sovrana delle sue famose Antilogie, discorsi capaci di confutare e demolire ogni tesi. Essendo la conoscenza relativa, mutevole e fondata sulle sensazioni che sono differenti da uomo a uomo, ed essendo tutte le opinioni vere, se sul piano ontologico non può contraddire le convinzioni contrarie, l’oratore può tuttavia far apparire il proprio discorso migliore e più persuasivo, affascinando l’ascoltatore proprio grazie alla sua arte.

Malgrado questa astuzia, Protagora resta comunque un pensatore complesso, che prepara le profonde e costruttive critiche di Socrate e Platone. E pertanto, insieme a Gorgia di cui ci occuperemo nella prossima briciola, si solleva di molto sui venditori di fole, che estremizzando la formula che “l’oratoria è l’arte di rendere più forte il discorso più debole”, si sbizzarrirono poi in sterili e capziosi giochetti eristici.


 

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